“Venite a Cuba, potrebbe essere una delle ultime occasioni per vederla prima che (la) cambi” (S. M.)

Con questo articolo voglio provare ad aprire una serie a cui penso da tanto tempo, almeno almeno un anno o due, e che pensavo di intitolare alternativamente “Attacco al frasario ineluttabile del fotoamatore medio” oppure “Bestiario delle ideacce sulla fotografia” o altre robe del genere.

L’idea era di prendere uno alla volta, man mano che mi capitavano sottomano, le fisse medie che disturbano il sonno di molti fotoamatori, quelle cose su cui spesso ci si trova a discutere per ore senza capirne il motivo. Si tratta di stereotipi, miti, frasi fatte, idee preconcette su una cosa, la fotografia, che alla fin fine è sì arte ma è anche molto semplicemente un lavoro.
Poi il mio responsabile SEO mi ha detto che era meglio che nel titolo dell’articolo ci fossero le parole “Steve McCurry” e “Photoshop” perché, mi ha rivelato, ultimamente è successo un casino in qualche posto del mondo e queste due parole sono chiavi di ricerca molto cliccate… Ovviamente l’ho subito licenziato, come McCurry “avrebbe” licenziato il suo “giovane” collaboratore, e poi ne ho seguito il consiglio.

La prima frase del “Bestiario del fotoamatore medio” quindi non può che essere:
“Io non fotoritocco niente, se fotoritocchi non sei un vero fotografo, così son capaci tutti”.

Giuro di aver letto qualcosa di simile come didascalia alle foto di una mostra che ho visitato tempo fa: “Queste foto non sono state manipolate o ritoccate in photoshop”. Volevo aggiungerci sotto: “E si vede”, ma poi non l’ho fatto.
La verità è che la manipolazione è inevitabile, e per motivi che sappiamo tutti benissimo: se non “sviluppassimo” i RAW ci troveremmo con dei files non stampabili, sarebbe come proporre stampe negative dalle pellicole. Sicuramente aderenti alla realtà della pellicola, ma niente affatto aderenti alla realtà ripresa.

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Poi c’è chi scatta direttamente in JPG e pensa che sia più da “bravi fotografi”. Assurdo: da “bravi fotografi” è usare con maestria la macchina, sfruttandone eventuali limiti a proprio vantaggio (ad esempio decidere di scattare in JPG per qualche motivo nostro). Altra cosa è decidere aprioristicamente che se scatti in JPG e la foto “viene” sei bravo, se no “non sei bravo”. Sarebbe come scattare solo polaroid, ma non perché se ne apprezza la resa cromatica o l’unicità del risultato, ma solo in nome di una pretesa “oggettività” di qualche genere. Non c’è oggettività nelle polaroid, che infatti somigliano alla realtà ben poco, e non c’è purezza nei JPG, che sono semplicemente manipolati, e a volte rovinati, dalla fotocamera.

Smargiassi qualche giorno fa, parlando del famoso “palo” di McCurry, diceva che se un gruppo di studiosi del futuro decidesse, per assurdo, di mettersi a fare uno studio di come erano piazzati i pali segnaletici a Cuba nel 2014, da quella foto di McCurry trarrebbero dati errati. Vero. Vero anche, però, che un gruppo di studiosi che non si rende conto che il materiale su cui lavora non è del più attendibile non lavora molto bene, no? Sarebbe come se gli egittologi fossero convinti che gli antichi egizi camminavano con le braccia ad angolo perché l’han visto sui geroglifici… no, dai, siamo seri :).

La verità è che al giorno d’oggi ogni foto, bene o male, è manipolata. Di base manipolata nel colore, tono e luminosità globali. E questo te lo fa già la macchina da sola, se vuoi.
Poi il fotografo, se ha un minimo a cuore il proprio lavoro, ci aggiunge ulteriori correzioni di luminosità, contrasto, tono a livello di zone.
In più potrebbe anche decidere di tagliare fuori qualcosa, riquadrare come si dice, anche in nome del fatto che la foto è già di per se stessa un ritaglio della realtà operato dal fotografo medesimo, e quindi il fotografo può arrogarsi il diritto di tagliare ancora (e anche raddrizzare).

Fino a qui di solito arriva la linea di demarcazione tra “consentito” e “non tanto consentito”. Questa linea viene tirata qua, immagino, perché tutto quello di cui sopra si poteva fare, e si facevo oh sì che si faceva, in camera oscura.

Poi entra in campo il “male”, photoshop e derivati. Le cose che si possono fare da qua in avanti un po’ si facevano pure prima, in analogico, ma era molto difficile. Ora invece possiamo fare tante cose graziose che prima richiedevano grande mestria: “clonare”, ovvero copiare pezzi di foto da una parte all’altra, di solito allo scopo di occultare dettagli fastidiosi, andare giù pesanti con correzioni di vario tipo, pelle levigata, oggetti cancellati e così via.
Ecco, questo viene visto spesso come “il male assoluto”.
La cosa interessante è che dipende dal “patto” tra fotografo e spettatore.
Se il patto è quello del fotogiornalismo, ovvero “io ti mostrerò solo quel che ho visto” allora ci può stare l’indignazione del caso McCurry, perché se mi cancelli o sposti cose da una foto allora mi stai mentendo.
Se invece il patto è quello del fotografo di moda, dentro ci sta qualsiasi correzione.

Il vero problema è chi decide il patto: nel caso di McCurry, mi sa, c’è stata un’incomprensione di base, un fraintendimento, un po’ voluto, un po’ tollerato. Se all’inizio McCurry era un fotoreporter, da un certo momento ha smesso di esserlo. Lo dice lui stesso. Solo che, mi sa, ha dimenticato di dircelo.
Dall’altro lato c’è da dire che molti dei più “sdegnati” dal fatto che McCurry ricorra al fotoritocco han deciso unilateralmente quale fosse il patto fra loro e McCurry: cioè han deciso che McCurry non ritoccava, perché gli piaceva crederlo. E poi ci son rimasti male quando han scoperto che non è vero.
Io sto a metà: non mi fa ne’ caldo ne’ freddo se McCurry modifica un po’ le sue foto, resta molto bravo lo stesso, comincia a darmi invece fastidio quando le manipola pesantemente come nell’esempio, riportato in tutto il mondo in questi giorni e che a me era arrivato un paio di settimane fa, della foto col rickshaw nella pioggia.
Ecco, lì la mia stima per McCurry comunque in grado di comporre bene e in modo pulito in situazioni difficili comincia a vacillare. Perché se posso fare una foto e poi toglierci du persone davanti, due dietro, un rickshaw sullo sfondo, una tenda bianca, un carretto bianco, una riga diagonale di chissà cosa in un angolo… beh… ecco…

Ma alla fine, queste foto documentaristiche, quali sono?
Sono quelle del WWP?
Guardate, io abbozzo una mia idea: ovunque ci siano fotografi e foto “belle” che possono essere premiate, siamo in presenza, comunque, di una scelta di tipo estetico. Per aderente che sia alla realtà, necessiterà sempre, per essere bella ed efficace, di un’organizzazione magari non imposta, ma comunque “colta”, scelta, vista da qualcuno che sia bravo a scattare in quel momento. E se la realtà, per essere vista, pubblicata, premiata, deve aderire ad un qualche canone estetico, beh forse allora l’idea di una sua rappresentazione oggettiva, già impossibile di per se’, si allontana sempre di più.
Quali sarebbero quindi le vere foto documentative su, poniamo, l’immigrazione coi barconi? Quali le foto che andrebbero usate in futuro per studiare quella situazione e scriverne per i posteri?
Forse le uniche foto quasi-oggettive, quasi-sincere, di vero reportage genuino, con un vero punto di vista non viziato dalla nostra ricerca dell’estetica del reportage, potrebbero essere a questo punto  le migliaia e migliaia di foto scattate dai migranti stessi, coi loro telefonini, l’uno all’altro, alla famiglia, alla partenza, ai barconi, all’arrivo, ai campi di accoglienza… queste forse dovrebbero concorrere al WWP